Il primo centenario del Liceo «Annibale Mariotti» (1960)

Il primo centenario del Liceo «Annibale Mariotti», in Aa.Vv., Nel I centenario dell’istituzione del Liceo «Annibale Mariotti», Perugia, 1961. È il testo di un discorso celebrativo tenuto nell’Aula Magna del liceo classico «Annibale Mariotti», a Perugia, nel novembre 1960. Poi pubblicato, con qualche modifica e con il titolo Ritratto di Annibale Mariotti, in «La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, s. VII, Firenze, gennaio-aprile 1961; poi in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963 ed edizioni successive; in W. Binni, La tramontana a Porta Sole cit., edizione 1984 e successive; in W. Binni, Scritti settecenteschi 1956-1963, vol. 12 delle Opere complete, Firenze, Il Ponte Editore, 2016.

IL primo centenario del Liceo «Annibale Mariotti»

Nel prendere la parola per commemorare il centenario del nostro Liceo non mi sottrarrò ad un esordio scontato nella tecnica di simili discorsi e pur non convenzionale, e umanamente ben giustificato dal fatto che io, dai dieci ai diciotto anni, sono stato allievo di questa scuola, fra queste mura ho fatto, come tanti altri perugini di varie generazioni, la mia prima esperienza formativa di cultura, di carattere, di personalità: dico, l’espressione della commozione che io non posso non provare nel ritornare, carico di esperienze e di attività, di dolori, di amarezze, di gioie e di virile volontà di vita (come non può non accadere a chi come me ha ormai vissuto, interamente e non inutilmente, la parte piú lunga della sua vita), nel ritornare qui dove ho intrecciato le prime amicizie, dove ho imparato a distinguere fra animi e caratteri diversi, ad apprezzare compagni e maestri (primi paradigmi della inesauribile ed entusiasmante e amara esperienza degli uomini e delle loro diverse qualità), dove i miei sentimenti sono lentamente usciti dal limbo infantile dell’inesperienza o dell’esperienza mitologica e puramente fantastica nell’eliso e nell’averno delle passioni e dei fermenti dell’adolescenza, e han preso radice e umore i segni fondamentali del mio carattere e del mio destino di uomo e di scrittore, dove mi si sono dischiusi per la prima volta i mondi sereni e tormentosi, stimolanti e inquietanti dell’arte e della poesia, del pensiero e della scienza, nella voce cara dei miei primi insegnanti e dei miei compagni e magari piú spesso (ma non senza rapporto con il calore propizio di un ambiente familiare) nelle letture furtive e private, fatte sotto il banco, quando, resistendo alle dubbie grazie della sintassi latina e della grammatica greca, del giuoco dei logaritmi o del macroscopico proliferare di famiglie di erbe e d’animali, preferivo affidare lo scorrere delle ore all’avventura delle letture piú nuove e meno scolastiche: dai Malavoglia ai romanzi di Svevo, agli Indifferenti, dagli Ossi di seppia a Sentimento del tempo, al Breviario di estetica o a libri di Freud, all’Età del Risorgimento di Omodeo o ai libri sul cristianesimo di Buonaiuti, per indicare significativamente i termini lati della biblioteca privata di un adolescente 1926-31. La commozione e l’umanissimo rimpianto di un tempo felice e aperto ad un futuro che sembrava illimitato di estensione e di energie e di incontri e di avventure feconde, la commozione al ricordo di una formazione che si avvantaggiava anche delle impareggiabili suggestioni della nostra città, del soffio animatore della tremenda e pur vitalissima tramontana, che stimola l’animo a sogni e impegni profondi, della sua bellezza invernale e antica, autentica e severa, della sua mirabile misura tettonica e architettonica (misura per l’uomo e per gli uomini), del suo segreto fascino di misteri etruschi e di rude e civile violenza medievale e del suo miracoloso organico accordo che si esaltava per me nell’incontro coerente della loggetta rinascimentale, che fiorisce al sommo dell’arco etrusco sigillato dalle scritte e dall’annerimento d’incendio dei vincitori romani, e del settecentesco palazzo Antinori-Gallenga illuminato dal ricordo di una recita infantile del grande Goldoni.

E al fascino di questa città scabra, antiretorica, di eccezione e pur cosí naturale e fatta per gli uomini, ben volentieri mi riconosco debitore dei primi avvii del mio animo al culto del valori, all’esercizio stesso della mia attività di critico di poesia e di storia, alle prime scelte e preferenze per l’intenso, per la tensione che vive anche nelle opere piú rasserenate e trasfigurate, per un accordo poetico-civile che associava in me l’idea della potenza dell’arco etrusco e del palazzo comunale alla guerra disperata contro Paolo iii o alla pagina dolorosa e gloriosa del xx giugno.

La grazia gentile e pittoresca di Monte Pecoraro, la malinconia foscoliana-leopardiana del nostro romanticissimo cimitero, la bellezza villereccia di Prepo, la scura intricata suggestione dei vicoli medievali e delle piazzette rinascimentali e ottocentesche (come questa, aristocraticissima e affabile, di San Paolo), il segreto della sotterranea via Bagliona, l’emblematico panorama di Porta Sole col varco infinito dei monti di Gubbio si fondevano, nella mia giovanile esperienza, con le offerte della storia perugina e della sua arte, della sua scuola pittorica e magari di quei potenti segni di civiltà e vitalità che sono, fra Duecento e Trecento, la laude religiosa e i sonetti dei realistici perugini.

Commozione, rimpianto, ricordi, che qui, in questo Liceo, soprattutto si localizzano, nel riaffiorare di colpo, dalla memoria sollecitata e commossa, di inebrianti giornate di neve o di tenere e acerbe primavere, nel ricordo preciso e struggente di persone: i cari compagni seguíti nel crescere dai calzoni corti alla prima peluria virile, indimenticabili come, fra tutte, la figura gentile e seria, affascinante per una certa sua flemma inglese e un’ironia molto perugina, per la sua innata e sobria eleganza, di Luigi Severini, che seguo ancora, incredulo e impersuaso della sua precoce scomparsa, per le vie di Perugia e per le aule di questa scuola. E gli insegnanti, di cui ancora risento la voce volenterosa anche quando non era sempre convincente, da quella rude e severa di Bassotti, il mio primo insegnante di ginnasio, a quella piú mobile e toscanamente precisa e arguta dell’italianista Bernardini, dallo zelo storico un po’ antiquato e atteggiato di Robiony alla implacabile lucidità della matematica Casanova, dalla voce profonda e suggestiva del michelstädteriano Chiavacci a quella ottocentesca del vecchio preside Cristofanelli che prometteva inaudite punizioni mai poste in atto, a quella del Nencini che filosofando idealisticamente ci schiudeva il regno della dialettica hegeliana. E, perché no?, i volti delle compagne che ad un precoce sentimento della impareggiabile grazia della femminilità offrivano stimoli a sogni eroici, a idilli trasognati, a tranquilli elisi familiari, collaborando alle prime letture degli stilnovisti e dei lirici amorosi da Petrarca a Tasso.

E ancora ricordo la simpatia per il volto ottocentesco del Bini-Cima che ci guardava all’ingresso dalla sua lapide e ci parlava con la voce poetica di ingenuo e sincero postromantico («ebbe gentile il core / fu selvaggio; fu triste e soffrí molto»), e la venerazione piuttosto inconsapevole per il patrono di questo Liceo, quell’Annibale Mariotti, il cui ritratto viene oggi fra queste mura a ribadire la scelta tutelare del suo nome, fatta, poco dopo la fondazione, nel 1865, dai nostri antenati del secondo Ottocento.

Certo nella mia sete giovanile di storia perugina (l’amore fortissimo per la storia mi nacque allora, fra i quattordici e i quindici anni, come amore ingenuo e un po’ campanilistico per la storia locale), certo, allora, quella figura non mi pareva superiore a quelle di un Coppetta o di un Caporali (di cui venni meglio poi chiarendomi l’indubbia superiorità da un punto di vista artistico) o a quella bellissima di Luigi Bonazzi la cui storia solo in una prospettiva molto angusta si potrebbe considerare come opera di parte e non come una vera epopea perugina scritta da un uomo risorgimentale, fra i piú degni e sensibili che io conosca anche sul piano nazionale.

Eppure i perugini che vollero intitolato al Mariotti il nuovo Liceo fecero, a ben guardare, una scelta felice e oculata (Bonazzi era vivente e professore del Liceo e partecipe di quella stessa scelta) motivata nella lettera al Sindaco del preside Pennacchi, 13 giugno 1865, in questi termini ancora accettabili: «non saprei trovare un nome piú venerando di quello del Mariotti, in tempi molli e difficili propugnatore di liberi e italiani concetti e acuto quanto onesto ricercatore delle patrie cose con rara critica esposte e dimostrate».

Annibale Mariotti (vissuto dal 15 settembre 1738 al 10 giugno 1801) non fu una grande personalità, ma certo fu un uomo ben vivo nella sua città e nel suo tempo, pieno di interessi e di curiosità, un uomo che seppe settecentescamente comporre scienza, poesia e studio erudito e fu soprattutto un uomo che, venuta l’occasione, seppe pagar di persona con molta dignità e con molta consapevolezza di ciò che aveva fatto e non fatto.

Vissuto fino al 1754 a Perugia e laureato in quella università in medicina, sentí subito il bisogno di avvicinarsi, al di là della dubbia scienza locale, all’insegnamento romano del Jacquier, dello Stay e del Le Seur studiando fisica e meccanica per poi, nel ’58, riportare gioiosamente i frutti della sua nuova cultura sperimentale nella sua città, cui fu sempre affezionatissimo. E quanti tratti del suo carattere bonario e critico, ironico e poco pretenzioso ne fanno un perugino esemplare, amante della città, della sua storia, del suo clima, della sua bellezza montana a cui, in occasione appunto del suo ritorno da Roma, innalzava un inno di gratitudine in elaborati versi latini che mostrano subito in lui l’educazione umanistica e la scuola dei classici usufruita settecentescamente come scuola di forma e come coerente ideale di nobilitazione di temi vivi, contemporanei, nell’alta perfezione della lingua e della tradizione latina, nella similarità di ideali razionalnaturali, nel saldo binomio di tipo pariniano, Natura-Ragione, Piacere-Virtú, con tutto un inerente gusto della vitalità, e dell’eleganza classica che la eternizza e la sigla lontano da una morta reviviscenza archeologica:

Jamque procul tectorum culmina nosco

montibus impositas turres patriaeque superba

moenia, quaeque leves adspirant collibus auras.

Non sarà certo la grazia sicura del Rolli che nel ritorno dall’Inghilterra a Todi cantava «l’aria leggera sotto azzurro cielo», ma son pur versi non volgari, prima testimonianza di sentimenti e modi di un tipico uomo e letterato del secondo Settecento che, pur avendo altri interessi predominanti di carattere scientifico ed erudito, voleva e sapeva intrecciare a quelli il respiro consolatore e stimolante della poesia, senza mai illudersi di essere un vero e grande poeta, senza mai cedere – modesto e consapevole, semplice e schietto – alle tentazioni sproporzionate dell’invasamento apollineo cosí fastidioso in tanti versificatori della sua epoca e alle cui pretese ridicole sapeva contrapporre dichiarazioni di una poetica modesta e gradevole di verseggiatore contento di trarre dal proprio culto della poesia una consolazione privata e socievole, un conforto e incoraggiamento ad una vita gentile e civile, che gli meritarono la citazione onorevole del Croce quando nel suo saggio sull’Arcadia questi riportava alcuni versi recitati dal Mariotti nel giardino arcadico del Frontone:

Non io però fin dall’eteree sedi

un foco agitator chiamo e desio

che l’irritabil core ecciti a moti

troppo vividi e spessi, e per gli occulti

del cerebro recessi arbitro errando,

l’ordin ci turbi delle impresse forme,

e me tolga a me stesso, ond’io non vegga

e non parli che cose altere e nove,

sol da un ardente immaginar create,

tal ch’io me poco, ed altri non m’intenda.

Piano sentier, qual si conviene al pigro

debile ingegno mio, m’aprite, o Muse!

Dove ben si avverte – in una specie di spaccato settecentesco che rende la figura del Mariotti ben significativa per un clima medio di secondo Settecento seppure un po’ provinciale e minore – l’antipatia per le forme ampollose e oscure per mentita ispirazione dei poeti-vati del tempo, dei verseggiatori del grande o del sublime pindareschi e profetici, e una nozione di poesia conversevole e meditativa, piana e modesta, inserita nel cerchio della ragionevolezza e del buon senso comune, ambiziosa di assoluta comprensibilità e comunicabilità: e dunque una presa di coscienza sicura dei propri limiti e dei propri ideali e insieme il riflesso di una mente calma e chiara, di una educazione scientifica e sperimentale che attribuiscono il Mariotti soprattutto a quelle correnti di metà secolo che svolgono ideali e modi arcadici di chiarezza e di socievolezza, di naturalezza e di disciplina formale e interiore soprattutto nelle forme di una letteratura discorsiva appoggiata al sensismo e all’illuminismo dell’epoca, adatta particolarmente a uomini di cultura scientifica. Qual era quella che piú direttamente il medico e professore Mariotti possedeva e sviluppava, dopo la sua educazione romana, nell’attività professionale (che era poi la prima maniera sua di essere utile concretamente alla sua città) e nell’attività accademica svolta con grande serietà nell’Università e in aperta lotta con i residui della cultura aristotelica e scolastica, che guardava con sospetto l’introduzione da parte del Mariotti di nuovi strumenti sperimentali e contro cui nei suoi scritti abbondano frecciate violente per i «ridicula argumenta», le «inutiles quaestiones», le «nugae», o addirittura, con sdegno scientifico e morale insieme, contro il «nefas», il turpe di una pseudo-scienza che in nome di una malintesa pietas religiosa voleva ostacolare la libera trionfale avanzata della scienza sperimentale europea, della scienza all’insegna di Cartesio e Newton: con un’audacia decisa che lo portava sino a sostenere tesi a volte piuttosto azzardate (come quella della possibilità di gravidanza nell’uomo) pur di sostenere la libertà dell’esperienza e della ricerca spregiudicata che poi veniva da lui accuratamente appoggiata ad una forte conoscenza di ricerche ed esperimenti italiani ed europei in una vasta documentazione, accresciuta da una prospettiva di attenzione, di curiosità, di relazioni epistolari con dotti e scienziati italiani e stranieri, con cui il Mariotti rompeva il precedente isolamento perugino, come faceva ugualmente sul piano delle sue ricerche erudite di studioso della storia locale, delle patrie memorie che lo avvicinarono al Tiraboschi, al Garampi e a tutti i piú sicuri eruditi italiani del tempo.

Mentre le sue ricerche scientifiche ed erudite, con le quali ultime (specie con le Lettere pittoriche che ricostruiscono i dati e le date della tradizione pittorica perugina e uniscono l’amore per la verità di fatto con l’appassionata e stimolante giustificazione assai interessante di una intensa vita artistica quale corrispettivo di una forte vita democratica) egli si associava al lavoro erudito dei Lanzi e dei Tiraboschi, venivano irrorate di un candido e chiaro amore per la virtú senza cui scienza ed erudizione gli sembravano vane e inutili. Sicché al centro di tutta la sua attività si possono richiamare certe dichiarazioni di entusiasmo morale ben coerenti alla sua integrale posizione illuministica e aperte da alcuni versi giovanili del 1759, che non si possono rileggere senza avvertirvi una partecipazione schietta da parte di quest’uomo che in esse legava tutti i suoi interessi e un senso della vita tutt’altro che sprovveduto e ingenuo pur nella linea rossa del suo coraggio ottimistico e progressivo:

Bella virtú che sempre a te simile

di te sempre sei paga, e in cui si aduna

quanto v’ha di piú bello e piú gentile,

se v’è felicità, tu sei quell’una.

Non saranno grandi versi e la chiusa è nettamente provvisoria e scadente da un punto di vista artistico, ma hanno sapore di sincerità assoluta e ben intonano la linea su cui si svolge la stessa attività poetica del Mariotti che, con esiti variamente efficaci, val meglio considerare in questa prospettiva di letteratura ispirata a motivi morali e civili, in cui la stessa galanteria, l’attenzione al fascino femminile e, parinianamente, al «grato della beltà spettacolo», mentre è motivo vivo e svolto in accordo con tipici filoni di letteratura secondo-settecentesca (soprattutto secondo i moduli contemporanei della lirica savioliana) e dunque testimonianza di un significato di contemporaneità, di viva apertura alle forme della letteratura del suo tempo, ben corrisponde ad un ideale di gentilezza e di civiltà con cui il Mariotti partecipava a quella ricostruzione di una vita piú socievole, naturale e progressiva che impegnava la società intellettuale settecentesca sin dall’Arcadia e che ora, in zona illuministica, assumeva un tanto piú chiaro valore civile. Tanto che, nel discorso tenuto in epoca repubblicana per la rappresentazione del Bruto di Voltaire, il Mariotti fortemente batteva sull’essenziale acquisto di civiltà significato dalla presenza delle donne fra il pubblico e fra gli attori, dato che la intepretazione di parti femminili da parte di uomini gli sembrava parinianamente un’offesa alla naturalezza e alla natura: «Non può l’amore debitamente esprimersi né conviene che si esprima da altri oggetti se non se da quelli che son fatti dal Cielo per ispirarlo».

Che non era solo un’amabile chiusa di convenienza galante del letterato ossequioso verso le sue concittadine, pastorelle dell’Arcadia repubblicana, ma il sincero sentimento dell’uomo del Settecento illuministico che nella natura e nella ragione, nel piacere e nella virtú vedeva i termini saldi della sua vera fede, il senso di una fruizione sana, antiascetica e saggiamente spregiudicata della vita.

Da questo punto di vista la produzione poetica del Mariotti (certo comunque migliore di molta sua prosa accademica paludata e atteggiata, seppure non priva di idee e di chiarezza) prende per noi un suo doppio valore: quello di rappresentare, entro la concreta società perugina, cui egli interamente appartenne e volle appartenere, fino ad esserne organizzatore di accademie e della ripresa, nel 1778[1], di una tarda Arcadia (modo comunque di affiatamento di Perugia con le altre città italiane), quello di rappresentare le principali correnti poetiche in vigore fra il ’60 e l’80 circa (da riprese piú stanche del sonettismo arcadico, fra temi pastorali ed elogi encomiastico-storici alla Filicaia e Frugoni, a forme pariniane e soprattutto savioliane di odicine amorose, a un largo esercizio di versi sciolti di stampo didascalico-illuministico sino a rari barlumi di malinconiche cadenze preromantiche) e, piú, il valore di segnare chiaramente l’interesse etico-civile dell’illuminista moderato sí, ma disposto, quando venne il momento, ad accettare, ben coerentemente con gli stessi motivi espressi in poesia, la responsabilità amministrativa e politica al segno della libertà repubblicana e democratica.

Cosí, già nei sonetti di tipo filicaiano e frugoniano la rievocazione della battaglia di Azio sarà pretesto ad una riflessione illuministica antiromana contro la violenza e la dominazione sopraffattrice, il tema della Temperanza darà l’avvio ad una meditazione sulla rovina degli stati desiderosi di smodata grandezza e di potenza imperialistica e alcuni sonetti per monacazione singolarmente coloriscono, di fronte al finale pio, piú convenzionale, il valore della vita familiare e mondana, della fruizione di beni vitali e naturali negati alle giovani recluse. Ed è davvero singolare in un sonetto per monacazione questa perorazione molto partecipata di un advocatus diaboli troppo eloquente:

No, non potrai, quando piú forti i sensi

di lor natia ragione usar vorranno,

no, fuggir non potrai, come tu pensi,

entro quel chiostro ogni mondano affanno.

In quel silenzio piú che altrove intensi

gli amanti affetti al cor sentir si fanno;

né tra i vani potrai desiri accensi

molto goder del lusinghiero inganno.

E mostrar ben potrai liete e gioconde

le luci allor; ma fia, che tardi accorta

l’alma di noia e di dispetto abbonde.

E non potrai... Dove il livor ti porta

rio tentator? Sí, tutto (ella risponde)

tutto posso in quel Dio che mi conforta.

Dove è evidente che l’accento preme, piú che sul finale religioso, sui sensi spontanei, sulla natia ragione, sugli amanti affetti di una giovane donna: i termini su cui, piú convenientemente, il Mariotti insiste piú volte in poesie per nozze, come quando scrive ad una sposa ritrosa:

Del natural desio che in te non dorme

sol ti piaccia seguir la facil arte

e di raro vigore al tuo conforme

ne’ tuoi figli vedrai non dubbia parte

o nella prefazione alla traduzione dei Consigli agli sposi di Plutarco (significativamente preferisce presentare agli sposi questo solido testo di naturale buon senso che non epitalami abusati e convenzionali) o nelle numerose canzonette erotiche che conservano tutto sommato la parte piú gustosa e accettabile della produzione in versi del Mariotti.

Anche lí, e soprattutto lí, campeggiano Natura e Ragione, Piacere e Virtú e, lungi da ogni punta libertina, questi ideali si consolidano nella tenue ma gustosa rappresentazione realistico-classicistica di immagini di sanità naturale e di civile eleganza e compostezza. Immagini di giovani donne amorose:

Dalle pupille tremule

piú acuto stral si scocca:

nuovo cinabro spargesi

sulla ridente bocca.

Tondeggia il collo eburneo

sotto il bel crine aurato

per mano delle Veneri

raccolto e inanellato.

Quindi in gentil declivio

molle discende e unito

alabastrino l’omero

al braccio ben tornito.

O modeste scenette di quieta e sana vita villereccia invernale:

E il buon villan già libero

d’ogni gravosa cura,

gli ozi che i Dei gli ferono

omai goder procura.

Quindi di fessa rovere

e di silvestre oliva

chiuso in suo vil tugurio

stridule fiamme avviva;

tutta tremante e gelida

al focolar fumoso

la famigliola assidesi

in placido riposo...

Tutta al canton rannicchiasi

colla conocchia amica

ruvido fuso a volgere

l’ispida madre antica.

E a lei di cor consimile

siede vicina ancora

discinta il petto tumido

la pia feconda nuora

cui mentre intorno pendono

i pargoletti figli

e or questo or quel rimprovera

de’ ciechi lor consigli

o antichi panni e laceri

provvida risarcisce,

o in maglie minutissime

spoglie alle piante ordisce...

Poesiole da antologia di minori savioliani e pariniani con di suo un gusto piú acerbo e spesso incondito di piccolo realismo provinciale e artigianale tutt’altro che sgradevole come certe repliche provinciali di mobili rococò e neoclassici. Al centro un amore umanistico per la poesia come conforto di vita socievole e come privato diletto congiunto allo studio e all’amore per la letteratura e per la cultura. Secondo i versi di tipo cassoliano del sonetto La libreria, forse i piú pacati e limpidi di tutta la produzione mariottiana:

Sacra alle Muse e a me verace e sola

fonte di pura calma e di contento,

romita cameretta, in cui ben sento

ch’ogni torbida idea da me s’invola:

tu negli aurei volumi illustre scuola

d’ogni saver mi schiudi; in te men lento

scende il chiomato Apollo, e a par del vento

fra’ tuoi dotti piaceri il dí sen vola...

E insieme, al centro, il sentimento della vita antiascetica e laboriosa che giustifica idealmente, anche se non sostiene poeticamente, un sonetto sull’incontentabilità umana, che alla noia dei pigri oppone i termini della vita piena e della morte piuttosto che immagini oltremondane e moralità religiose. Non che il Mariotti sia stato un irreligioso o ateo, ché anzi il suo illuminismo, come esemplarmente avviene nel Parini, si associa assai agevolmente a una pratica tradizionale e a un cristianesimo illuminato e tollerante, ma appunto nella sua accezione piú illuministica che decisamente cristiana e piú pratica e morale che ascetica e metafisica. E che si apre soprattutto alla vita e ai suoi valori, come si può ben vedere anche in quel curioso e gustoso atto unico Il Pallone volante, del 1784, che usufruisce di certa sottile gracile vena comica non rara nel Mariotti (si pensi ad un sonetto sul Demonio di Socrate fatto consistere nella famigerata Santippe) per chiara presa di posizione illuministica, non alta e enfatica come quella dell’Ode montiana al Signor di Montgolfier, ma discreta e sicura.

È evidente infatti che nel contesto leggero e un po’ gracile, fra ingenuo e malizioso, con un impasto a suo modo molto piacevole, certe battute si isolano per la loro voce precisa di una fede nel progresso che vive in tutti i personaggi (figurine graziose e agili, fra popolaresche e raffinate) ad esclusione del petulante signorotto provinciale, incivile e fatuo (quasi una replica minore di certi nobilotti goldoniani sgarbati e tracotanti), che non crede nei lumi della ragione e sdegna la vicinanza della plebaglia e a cui il milord inglese, il borghese italiano affabile e uguale con tutti, la fidanzata che rifiuta il suo matrimonio tutta piena di entusiasmo per le nuove scoperte fino a voler partecipare essa stessa al primo viaggio degli Charles e Robert, e soprattutto il caffettiere Criquet, voce del buon senso e del nuovo orgoglio egualitario del popolo francese, danno sorridenti, ma consistenti lezioni di comportamento e di ragionevolezza fino a rimandarlo scorbacchiato alla città di provincia in cui esercita i suoi malcollocati privilegi. E che senso se non quello di una fede democratica e illuministica si può dare alla battuta di Criquet («Eh via signor Tibaudier. Se viaggiando per aria, si arriverà mai fino alla luna, oh quante belle memorie si caveranno da quegli archivi per provare ad evidenza che tutti nasciamo ad un modo!») o a quella con cui di nuovo il caffettiere esprime il suo desiderio di assistere al decollo del pallone volante («palloni che viaggiano per aria non gli ho veduti mai. De’ palloni che stan sempre per terra, oh di questi sí che ne ho veduti e ne vedo ogni giorno») o a quella del Milord («un regno riceve piú onore da due filosofi che da un infinito numero di oziosi e di storditi») o alle serie parole con cui questi ribatte alla ironia di Tibaudier («Bellissima! I parigini sono annoiati di stare in terra e voglion star per aria») dicendo: «Questa è una voglia fra gli uomini antica assai».

Il Pallone volante era uno scherzo, un divertimento fatto perché anche «il nostro popolo minuto», come dice il Mariotti, «avesse una idea di quella famosa macchina». Ma gli ideali che premono dentro quella prosa leggera e festosa eran venuti sempre piú maturando nell’animo del Mariotti e lo si vede bene quando, giunti, nel 1799, i francesi a Perugia, essi vi proclamarono la repubblica ed egli si assunse il compito di gonfalonierato, massima carica cittadina, senza esitazioni e senza reticenze e manifestando piú volte pubblicamente a chiarissime note i suoi sentimenti e le sue idee. Come nel discorso tenuto, quale direttore delle tragiche azioni teatrali nella perugina accademia nazionale di belle lettere e arti, per la rappresentazione del Giunio Bruto di Voltaire, in cui, dopo un violento esordio antitirannico («Impallidiscano a te davanti, o Bruto, gli oppressori superbi dei Diritti dell’uomo, gli astuti fautori delle crudeltà e delle scelleraggini; gli insidiatori protervi della onestà e della innocenza. Ma con lieta fronte e sincera ti miri chiunque ha in petto un’anima libera, chiunque ama la umanità e la virtú. Qui tu non vedi né Tarquinii né Porsenni, né Arunti. Qui l’onor, la giustizia, l’amor, la pace applaudiscono agli eroi della libertà, ai difensori della uguaglianza, ai vindici della ragione»), egli svolse il tema squisitamente repubblicano e alfieriano dei legami indissolubili fra la poesia tragica, educatrice di virtú e di libertà, e le condizioni dei governi democratici e della sua incompatibilità con qualsiasi regime assoluto. O come nel discorso tenuto da lui in qualità di rettore dell’Università in occasione della riapertura di quella, riformata in senso democratico: discorso ancor piú significativo e per le citazioni degli enciclopedisti e di Rousseau e per una singolare contrapposizione, nella storia perugina (a cui sempre il Mariotti attentamente guardava), fra gli eroi democratici, i Cesti, i Biordi, gli Andreotti, e «le aste scellerate» dell’aristocratico Fortebraccio, e per la decisa antinomia fra il «passato barbaro tirannico giogo» e la presente «rigenerazione», e per gli elogi al popolo francese promotore della libertà di tutti i popoli, e per un piú vasto raccordo fra libertà, cultura, scienza e morale. Termini ormai chiaramente enucleati e fra di loro associati in questa gioiosa realizzazione dei costanti ideali del Mariotti quali li abbiamo visti manifestarsi e maturarsi nella sua complessa esperienza di cittadino, di letterato, di scienziato, di illuminista coerentemente disposto ad adeguarsi all’allargamento degli orizzonti democratici che già albeggiavano entro la sua opera e la sua attività precedenti.

Né mancò al compimento della sua figura di rappresentante della migliore tradizione perugina e degli uomini del ’99 (idealmente vicino, in una posizione minore, ma non meno sincera, agli uomini della Partenopea) l’aureola della persecuzione e del carcere, quando, caduta, dopo eroica resistenza, la Perugia repubblicana sotto i colpi dell’armata dei sanfedisti aretini, egli fu arrestato e condotto ad Arezzo, esposto con la sua veneranda canizie agli insulti della plebe reazionaria, costretto poi, dopo un peregrinare fra le prigioni di Arezzo e di Perugia, a chiudere la sua vita fra umilianti persecuzioni e un processo, durante il quale la sua abilissima difesa seppe pur mostrare, nelle pieghe di una posizione legalitaria, la sua fedeltà agli ideali piú intimi e alla sua coscienza di cittadino sicuro di aver sempre agito per il bene della sua città.

Sicché agli uomini che, dopo il ’60, sulla forza autonoma loro concessa dalla giornata del xx giugno e della successiva non collaborazione rigorosamente attuata nei confronti del restaurato governo pontificio, lavorarono insieme agli organi del governo piemontese e poi italiano all’istituzione della nuova vita democratica a Perugia, egli poteva ben giustamente apparire come la personalità piú rappresentativa del secolo che aveva preparato la rinascita nazionale e locale, come l’uomo che aveva decisamente rotto ogni legame fra la cultura perugina e il regime papale, che aveva diretto la nuova università repubblicana, che aveva incarnato gli ideali scientifici, umanistici e democratici a cui gli uomini del xx giugno intendevano ispirare l’indirizzo di quella loro nuova scuola classica che fin dal ’60, subito dopo la liberazione, il Pepoli, commissario del governo piemontese per le provincie umbre, aveva istituito a Perugia: quella scuola classica a cui essi, come borghesi liberali e democratici, affidavano la formazione di una nuova classe dirigente attiva e progressista, costituzionale e aperta ad arricchimenti e prospettive popolari.

E qui la nostra commemorazione non può non rilevare il significato del centenario del nostro Liceo entro una vasta serie di simili cerimonie e commemorazioni che riguarda tutti i licei istituiti nel 1860 nell’Umbria, nelle Marche e nelle Romagne, sicché in questi giorni il piú illustre degli allievi del Liceo bolognese Galvani, Riccardo Bacchelli, celebrerà ugualmente il centenario di quel Liceo e certo insisterà anch’egli sul significato di quella istituzione per la storia moderna di Bologna entro la moderna storia nazionale ed entro la storia della nostra scuola classica pubblica.

L’istituzione del nostro Liceo fa infatti parte di una vasta opera condotta energicamente dal governo piemontese (e dal commissario Pepoli per l’Umbria) per dotare, subito dopo la liberazione (e dunque con una sollecitudine culturale ammirevole e con una forza di attuazione che non fu sempre imitata in tempi piú recenti dai nuovi governi italiani), le provincie ex pontificie di nuove scuole degne di questo nome dopo l’abbandono secolare in cui la scuola era stata lasciata dal governo pontificio, che, del resto coerentemente con le sue istanze antiprogressive, aveva considerato una piú libera e profonda istruzione popolare e borghese come pericolosa e addirittura dannosa. Cos’era infatti la scuola nel vecchio regime pontificio? Non solo mancavano vere scuole pubbliche, ma le stesse scuole religiose erano decadute e divenute indegne del vero nome di scuola, tanto erano chiuse ad ogni afflato di cultura moderna, tanto erano di carattere mnemonico e nozionistico, dogmatiche e chiuse nella formazione di sudditi fedeli al trono e all’altare e incapaci di ogni spirito critico e scientifico, inadeguata preparazione persino rispetto alle vecchie università in cui mancava ogni mezzo di sperimentazione moderna e la teologia dominava sovrana anche nelle scienze fisiche e mediche.

Di fronte a questo stato di cose il nuovo governo assumeva le proprie responsabilità e, se piú lenti e meno efficaci furono i suoi provvedimenti economico-sociali, esso mostrò subito la sua sensibilità ai problemi della cultura e della scuola e passò rapidamente all’istituzione di scuole medie superiori di diverso indirizzo (a Perugia furono istituiti anche un Istituto tecnico e una scuola magistrale), puntando però soprattutto sulla scuola classica come preparazione all’Università e formazione della nuova classe dirigente borghese secondo gli ideali variamente moderni e storici di un De Sanctis e di un Carducci.

E se ora, 1960, ci possono esser note le deficienze di una struttura in gran parte rimasta all’ordinamento Casati, e se le istanze popolari e democratiche e le nuove esigenze pedagogiche e culturali ci portano a desiderare piú complesse soluzioni scolastiche e, a loro base, quella scuola media unica dell’obbligo che deve avviare l’attuazione del dettato costituzionale secondo cui i capaci e i meritevoli anche se sprovvisti di mezzi debbono poter accedere ad ogni grado dell’istruzione; se ora possiamo avvertire angustie e insufficienze della scuola classica troppo legata a un umanesimo e a una cultura di classe non piú rispondenti alle nostre diverse e piú avanzate esigenze, ciò non toglie affatto che, in una prospettiva realisticamente storica, l’istituzione dei Ginnasi-Licei nel 1860 fosse una soluzione moderna e affiatata con le necessità italiane e con le condizioni di studio piú progredite in Europa.

E ciò tanto piú, ripeto, sullo sfondo scuro negativo della situazione scolastica degli stati pontifici, di fronte alla quale il Ginnasio-Liceo con le lingue moderne e le scienze, con uno spirito scientifico e realistico corrispondente alle esigenze culturali dell’epoca, con la libertà dell’insegnamento e la critica discussione delle varie dottrine (per non dire del fatto che si trattava di scuole pubbliche senza discriminazione di ceto, di razza, di religione, di sesso), ben costituiva un’autentica battaglia per la cultura e assumeva un alto significato storico.

Sicché quella istituzione deve essere da noi commemorata come un atto a suo modo concretamente innovatore e deve essere perciò salutata con la gioia e l’onore che meritano nel passato quegli atti e quelle aperture verso il futuro che nel presente si debbono proseguire e rinnovare con pari coraggio e consapevolezza, se non si vuole lodare solo il passato senza sentirne il vivo vincolo con il presente entro una comune radice di progresso e di apertura verso il futuro.

Celebriamo dunque oggi un atto rinnovatore e democratico anche se oggi molti di noi intendono la democrazia in un senso piú vasto e diretto, come effettiva partecipazione di tutti alla vita dello stato e quindi anche della scuola e della cultura.

Da tal punto di vista mi pare anche che il nostro sarebbe un puro elogio retorico e senza senso storico e attuale se, al di là del preciso valore dell’istituzione del 1860 e al di là della piú forte corrispondenza della struttura del nostro Liceo alle condizioni sociali e culturali dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento, non avvertisse anche la minor forza di assimilazione delle esigenze e delle forze vive perugine specie dopo la guerra del ’15-18, durante la quale molti dei giovani formati da questa scuola dettero comunque prova delle loro virtú e qualità civili e umane. Da quando la pressione delle masse popolari nella vita politica, economica e culturale si fece piú urgente, anche la funzione formativa del nostro Liceo e la sua capacità di formazione della classe dirigente locale e nazionale si sono andate facendo minori; e proprio nei ricordi del periodo della lotta clandestina, verso la fine del ventennio nero, si deve onestamente riconoscere che fra gli uomini piú attivi della lotta democratica e antifascista, accanto a quelli che provenivano dalle file del nostro Liceo (Apponi, Abatini, Montesperelli, Francescaglia, Monteneri e poi Frezza, Severini, Rosi Cappellani e tanti altri), molti provenivano da altre scuole o da nessuna scuola: autodidatti di eccezione come Capitini e popolani come Miliocchi, Catanelli, Pascolini, Canestrelli, Tondini e tanti altri.

Voglio dire che sarebbe retorico fare del nostro Liceo l’unica scuola formativa delle piú recenti generazioni della nostra città, voglio dire che i suoi allievi migliori (quelli cioè che seppero seguire in nuovi tempi e nuove condizioni la lezione degli uomini che istituirono questa scuola, la lezione del Bonazzi e del Mariotti, e seppero essere veramente uomini di cultura nella accezione piú profonda di questa parola, seppero affermare i loro valori umanistici e culturali contro la negazione di tutti i valori) si ritrovarono non isolati e privilegiati, ma solidali e fraterni con uomini di altra formazione e proprio in questa comunanza attinsero la maggior forza del loro operare.

Come avvenne anche, nel periodo piú tragico della nostra storia moderna, negli anni della fine della guerra e dello sfacelo dello stato (quando la dittatura fece di tutto per trascinare nel suo sepolcro l’intera nazione italiana), a quei giovani generosi del nostro Liceo che, insieme ad alcuni loro insegnanti, soffrirono carcere e persecuzioni, parteciparono alla lotta armata o, come Comparozzi e Grecchi, in quella lotta sacrificarono la loro gioventú. Tra i loro nomi e quelli del giovane maestro Ciabatti fucilato dai tedeschi non vi era piú differenza e il blasone liceale cedeva a quello piú alto del sacrificio e dell’appassionato amore per la libertà e per la democrazia.

Terminerei qui il mio discorso, nel ricordo di atti che tanto onorano il nostro Liceo, se non desiderassi rilevare ancora piú chiaramente, entro il significato di questa nostra cerimonia, il valore che essa ha nei confronti del nostro Liceo come scuola pubblica, cioè come scuola di tutti senza eccezione.

La scuola pubblica è stato uno dei piú grandi doni fatti dallo stato unitario nato dal Risorgimento a tutta la nazione, a tutti gli italiani, e questi si debbono stringere intorno ad essa come ad una salvaguardia fondamentale della loro libertà e della loro libera formazione, debbono sentirla e amarla e, quando lo stato, per le tendenze politiche al governo, è meno sensibile a questo bene, devono stimolare lo stesso stato a meglio avvertire il suo dovere in tal senso, devono proteggerla con cura gelosa e interessarsene attivamente.

Proprio ripensando alla mia formazione giovanile di questo Liceo (pur in anni difficili in cui la libertà era soppressa dallo stesso stato) io posso rivolgermi ai giovani che attualmente lo frequentano e ai loro genitori e a tutti i miei concittadini esortandoli a prender chiara coscienza di ciò che la scuola pubblica, e quindi anche questo Liceo, rappresentano per loro e per tutti.

In questo Liceo, pur sotto la cappa plumbea del regime fascista, io ho avuto compagni di diverse provenienze di razza, di religione, di ideologia familiare, ho avuto professori impegnati sinceramente in diverse direzioni di fede o di opinione e tutto ciò, lungi dal favorire confusione o indifferentismo, ha stimolato in me il senso del dialogo, della tolleranza, del rispetto di tutte le opinioni e di tutte le posizioni purché sincere e profonde. E certo, pensando che il nostro ideale democratico moderno non è quello dei giovani formati secondo un modello chiuso e standardizzato, ma di giovani capaci di svolgersi liberamente secondo le proprie inclinazioni e convinzioni, solo la scuola pubblica si mostra atta all’avvio di una simile formazione aperta e consapevole. Sicché da una simile scuola usciranno migliori cittadini, con una loro fede precisa, ma non settaria, usciranno migliori cattolici, e migliori marxisti, migliori socialisti e migliori liberali, uomini migliori che avranno già inizialmente messo alla prova nel dialogo e nel confronto le verità mutuate dalla propria famiglia o maturate piú autonomamente.

Non si costruiscono una civiltà e una società democratiche se non su questa linea di formazione e perciò la scuola pubblica corrisponde all’interesse di tutti, o almeno di quelli che considerano un peccato contro lo spirito lo sfruttamento interessato delle menti giovanili, la loro coartazione in forme chiuse e prefigurate, e considerano un bene supremo per tutti una formazione che permetta di avere uomini veri, coscienti e combattivi, decisi ad affermare le proprie idee ma sol dopo di aver conosciuto quelle degli altri e averne riconosciuto fin da giovani la radice di serietà e di sincerità.

Per questo dal nostro Liceo sono usciti uomini politici, studiosi, professionisti stimati e stimabili, dotati di spirito critico democratico a cui questa città deve molto della sua prosperità e della sua cultura. Per questo oggi celebriamo, senza retorica e con vivo senso della sua funzione nel tempo presente, l’origine di questa scuola e ce ne riconosciamo con orgoglio e gratitudine allievi e scolari e possiamo, per questo, fervidamente augurarle di continuare a lungo la sua vita feconda adeguandosi sempre meglio ai suoi compiti per il bene della nostra città e di tutta la nazione.


1 La colonia arcadica perugina era sorta nel 1707, ma poi lentamente si era spenta e chiusa.